Wissal Houbabi è un’attivista femminista, artista e scrittrice e ha tante passioni, una delle quali è il rap. Voce e testi dello spettacolo “Che Razza di Rap”, è co-fondatrice del collettivo artistico triestino ZufZone. Il rap le piace così tanto che non si limita a sentire i brani ricchi e nuovi: li ascolta proprio. E ascoltandoli ha iniziato a farsi domande sul significato che certe parole e certi modi di dire possono avere nei testi, e a chiedersi tante cose.

Wissal ha scritto degli articoli: ha pubblicato il “Manifesto per l’antisessismo del rap italiano” per EUT e una ricerca sulla “pimpologia” hip hop per PalGrave MacMillan. Collabora con VICE – Noisey, Jacobin ed Agenzia X, tra le autrici di Future (effequ).

Scrive di antirazzismo, femminismo, hip hop e identità. Perchè spesso il rap e la tra vengono accusati di essere sessisti, misogini e a volte anche razzisti.

Qui vi mettiamo alcuni estratti delle sue analisi e dei suoi pensieri dalla rivista Jacobin Italia:

 

Da “Il rap spiegato da una femminista“:

Il rap naturalmente non è solo politico, ci mancherebbe, ma si fa politica anche quando si pensa di non farla: quando il linguaggio è sistematicamente misogino a tal punto da definire un immaginario preciso, diventa una questione politica e nessuno è escluso dalla propria responsabilità, neanche chi resta in silenzio

E proprio la cultura hip hop rappresenta uno spazio di resistenza creativa dal basso, uno sguardo decentrato che si impone sulle narrazioni egemoniche, spesso soffermandosi su questioni legate a razza e classe

Ciò che c’è invece di davvero fastidioso in questo dibattito è l’accanimento verso il genere rap, un genere che si presta facilmente alle accuse rispetto ad altri generi più mainstream anche per la storia che si porta dietro, o meglio, per le storie che caratterizzano questo genere di scrittura. Il rap ha un linguaggio diretto e schietto, nasce dalla marginalità, e come scrive bell hooks il margine è:

un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi di privazione. Può anche essere un ambito per la nascita di nuove possibilità di radicalizzazione, uno spazio di resistenza.

 

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Per approfondire:

Le Black Panther scrivono ai rapper che hanno a cuore la comunità afroamericana

 

Non abbiamo bisogno di dittatori del rap

“Per parlare di Black Lives Matter usando copertine provocatorie che rimandano agli attivisti solo per innalzare l’hype sulla vendita di un album, avrebbero almeno potuto scegliere un rapper che di antirazzismo se ne intende davvero, un rapper nero o di origini straniere, perché non si può parlare di Black Lives Matter escludendo dalla discussione i diretti interessati: chi vive il razzismo sulla propria pelle e ne fa una battaglia quotidiana.”

Test

Rap e capitalismo: long story short

Il talent show è caratterizzato da un continuo dover dimostrare «autenticità», proprio quella che cercano i tre conduttori tra Atlanta, Chicago e il Bronx. Quando ai candidati viene chiesto «Perchè fai rap?», oppure, «Cosa ti ha portato qui?», molti non ci girano intorno. Questi ragazzi e ragazze parlano di vita vissuta, povertà, violenza, solitudine e della loro speranza di farcela (con il rap) a superare la condizione difficile di chi viene «dalla strada». Il pubblico vuole queste storie strazianti, le applaude, e il partecipante guadagna punti «autenticità». Non voglio mettere in dubbio le loro storie, ciò che trovo assurdo è che storie di discriminazioni quotidiane vengano usate da un talent show come intrattenimento, e che la soluzione proposta sia quella di far vincere, quindi di far uscire dalla marginalità, un solo rapper.

Un programma come Rhythm&Flow non è in grado, né per propria natura può avere l’intenzione, di dare soluzioni politiche, ha solo bisogno di vendere un prodotto sussumendo il disagio di chi vive ancora ai margini della società. E alla gente piace pure! A me invece sembra la maggior distopia che possiamo vivere, ossia la commercializzazione del razzismo strutturale.