Di Giulia Frova

Come parte dello European Network Against Racism (ENAR), Razzismo Brutta Storia – nella persona della sottoscritta – ha partecipato a una visita all’isola di Lesbo, Grecia, promossa dallo EU-Russia Civil Society Forum, con l’obiettivo di comprendere meglio le cause e le conseguenze di ciò che sta accadendo e mettersi al servizio di chi lotta per denunciare e cambiare la situazione.

Con le e gli altri compagni di viaggio stiamo producendo dei comunicati e articoli sintetici ufficiali in inglese e in varie lingue. Qui invece una cronaca in italiano dei giorni passati sull’isola.

Dal giorno in cui siamo rientrati, le cose sono ulteriormente e rapidamente peggiorate: uno sciopero della fame nel campo di Moria (in cui sono detenute circa 14.000 persone in condizioni disumane) è stato forzosamente interrotto; è stato trovato il primo caso di Covid e ora sono a 35; oltre al lockdown dei passati cinque mesi è stata annunciata la costruzione di una recinzione (gli accordi firmati per un milione di euro); stanno scoppiando incendi nel campo e la situazione sembra degenerare ogni giorno. Attiviste e attivisti tedeschi tra cui Seebrücke hanno allestito in questi giorni 13.000 sedie davanti al Parlamento tedesco per chiedere alla Germania, tra le cose, di evacuare il campo e accoglierle nei suoi centri (vuoti).

Nel testo che segue provo a descrivere cosa abbiamo capito della storia e meccanismi di questa situazione. Cito tante realtà e persone incontrate, tra tutte invito a seguire le pagine Facebook di Nawal Soufi, Legal Center Lesvos, No Border Kitchen, Stand by me. Questo testo risponde probabilmente a un mio bisogno di raccontare e di riflettere mentre lo faccio, e spero potrà essere utile a qualcosa/ qualcunae. Buona lettura. 

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Arrivo sull’isola di Lesbo lunedì sera insieme a una combriccola dello EU-Russia Civil Society Forum. Conosco la persona che mi ha invitata, l’ungherese Marcell, dal network europeo antirazzista, ENAR. Oltre a lui, persone del Forum euro-russo e di associazioni, russe o russofone, una fotografa in pellicola russa-turkmena, un giornalista tedesco-messicano e la nostra donna in loco, francese, che lavora per una ong norvegese.

Davanti a noi, tre giorni di incontri: con le persone bloccate qui, con operatrici e operatori di ONG e associazioni locali, con infermieri, avvocate e avvocati. Obiettivo: capire meglio la situazione e mettersi al servizio degli sforzi di denuncia attivando le realtà e le reti con cui lavoriamo in Europa. Dopo i tre giorni con il gruppo rimango altri tre giorni (principalmente perché i voli hanno costi immorali) e ho modo di rivedere alcune delle stesse persone e conoscerne altre.

La mia preparazione sulla situazione in corso quando arrivo è abbastanza basica. Alla prima cena cito un documentario breve del marzo 2020 che ho appena visto, e che spiega bene che l’esplosiva situazione dell’isola (23.000 in quel mese le persone costrette nel campo principale di Moria) è il risultato delle politiche di esternalizzazione dei confini UE nelle isole egee, con gli accordi UE-Turchia da 6 miliardi del 2016, e indaga sul coinvolgimento della destra greca e di gruppi neofascisti nella fase degli attacchi contro chi arriva a Lesbo e contro le ONG.

Scopro che la produzione del doc non è inglese, come pensavo, bensì collegata alla testata Russia-Today. “Ma perché la Russia fa tutto ciò?”, azzardo timidamente. Il giornalista-sul-pezzo: “La Russia investe molto sulla copertura mediatica delle malefatte dell’Europa, e Lesbo al momento è una delle più gravi”.  Ok.

Ceniamo parlando di Russia – da Lenin a Putin e variazioni sul tema – in uno dei caffè sulla piazza principale – Saffo Square. A parte la piazza, in tutta Mitilene di Saffo non v’è traccia, vorrei approfondire oltre a quel che già so, ma per il momento questa è un’altra storia.

Gli incontri del primo giorno si svolgono prima presso un campo piccolo e “autonomo”, Pikpa, a qualche km dalla capitale, Mitilene, e poi in città. Il campo principale di Moria è in lock-down e il permesso di entrarci è stato revocato anche a molte ONG, anche se avremo modo di attraversarlo in macchina e vederne alcune parti nei giorni seguenti. Lesbo è la terza isola greca per dimensione, circa 1000 km2 per circa 80.000 persone, di cui circa 20.000 a Mitilene, e dista pochi chilometri dalla costa tuca (3 nel punto più vicino).

Raggiungiamo Pikpa con un mini van affittato e una manovra riuscita grazie all’aiuto di una decina di locali greci e Rom. Incontriamo tre persone: uno dei coordinatori del campo, un referente del progetto del Centro a Mosaic (a Mitilene), e una psicologa. Tutti greci. Ci spiegano che il campo di Pikpa ospita, nelle piccole e graziose casette, circa 110 persone segnalate da UNHCR come “più vulnerabili” tra quelli che stanno nel campo di Moria (al momento circa 14.500 tra l’area ufficiale e la cosiddetta “giungla”). Altre 1000 persone circa sono nel secondo campo dell’isola, Kara Tepe.

A Pikpa si definiscono “autonomi” nel senso che non sono gestiti dalle autorità locali e articolano fior di filosofia e metodo: assemblee ogni settimana con tutto il campo per assunzione di responsabilità, tensione orizzontale, autoproduzioni, scambi di competenze, Mosaic come luogo ponte con la comunità locale. Ciò detto, spiegano che la situazione presente sull’isola è grave – “Pipka non era mai stato pensato con l’idea che sull’isola si raggiungessero questi numeri”- , e quella futura molto incerta. Le facce sono tirate, stanno per mettersi in semi-lockdown. Hanno subìto attacchi pesanti, le loro macchine vandalizzate e l’odio scatenato sui social, l’amministrazione voleva farli chiudere dicendo che le cucine non erano a norma, hanno fatto una causa per le minacce online e l’hanno vinta. Una delle fondatrici, Efi Latsoudi, già nel 2017 denunciava le responsabilità politiche della situazione, quando a Moria c’erano ‘solo’ 6.000 persone, e riceveva un premio da UNHCR…

Sullo sfondo dei discorsi, sempre il campo di Moria. La psicologa spiega che le persone a Moria generalmente vivono il terzo trauma dopo i traumi che li hanno spinti a spostarsi e quelli vissuti durante viaggio, a causa di quello che trovano lì. Il 90% delle persone sono depresse e presentano sintomi da PTSD, insonnia, incubi, ansia panico ecc e diminuzione della possibilità di concentrarsi su alcunché, anche per lo stato di limbo in cui vivono. Per chi sta a Moria – e ci può stare settimane, mesi o anni – non c’è molto da fare perché: “non puoi curarti se non ti senti al sicuro, se devi stare in coda sette ore per un pasto e un’ora per andare in bagno, tra violenze, abusi sessuali e mancanza di condizioni igienico sanitarie di base”.  Ci racconta che grazie a uno psichiatra spagnolo le persone con psicosi severe possono ricevere psicofarmaci, e che anche quello è un diritto umano. Salutiamo Pikpa, le bambine e i bambini intenti nelle attività del ‘centro estivo’ e i suoi murales colorati.

Tornati in città andiamo al Nan Restaurant, altro progetto solidale nato dalle stesse persone di Pikpa, di cui conosciamo una delle fondatrici – avvertenza, descrivo i primi incontri con questo livello di dettaglio perché sono stati importanti per orientarsi ma pian piano la narrazione si dirada, giuro, credo… – e lì mangiamo in compagnia di Iman Doostdar, un ragazzo attivista-musicista arrivato dall’Iran, e beviamo il caffè – berremo molti caffè – con un’attivista inglese del Legal Center Lesvos.

Iman ci racconta la sua storia all’arrivo a Moria e proseguono racconti dell’orrore tra un falafel e una greek salad. In sintesi, nel campo – che ha una parte ufficiale intorno alla quale ci sono ettari di “jungle”, tende e baracche tra gli ulivi – c’è un livello di violenza altissimo tra i diversi gruppi presenti (Afghani, Siriani, Africani…) e una micro economia che viene definita ‘mafia-style’. “Le donne di notte preferiscono fare pipì nei pannoloni per il rischio di essere stuprate se vanno in bagno”. La poca polizia interna non fa niente, quando non peggiora la situazione; le persone provavano a denunciare ma non funzionava e hanno smesso di farlo. Decine di maschi si accoltellano ogni giorno, e muoiono con regolarità (l’ultimo un diciannovenne della costa d’Avorio ucciso in una rissa a luglio).  Il giornalista chiede dove e come vengano seppelliti i musulmani, il nostro interlocutore non sa – il tono delle voci si abbassa, rabbrividiamo. Iman racconta che è a Lesbo da due anni ed è riuscito a uscire da Moria in poche settimane, presentandosi al centro della ONG svizzera One happy family, che offriva corsi di chitarra e dopo una prova gli chiede di essere lui il maestro, iniziando a pagarlo. Questa è la storia di molte delle persone che incontriamo, ovvero che chi ha un capitale (linguistico/culturale/sociale) più alto riesce a orientarsi presto nella rete delle ONG e in qualche modo ad accelerare almeno l’uscita dal campo.

La fondatrice del Nan Restaurant è un’insegnate greca. È stanca. Il progetto era iniziato a Pipka con le famiglie che cucinavano cene ai volontari, e poi è diventato un luogo per dare lavoro, favorire scambio e integrazione (il Menu è tutto un mix di culture culinarie). “Ci sono voluti due anni a costruirlo, un sacco di investimenti da parte loro e ora resta un grosso debito.” Ci spiega che all’inizio l’attitudine dei locali era molto più aperta ma, dopo l’accordo UE-Turchia e l’aumento dei numeri, le persone si sono sentite prese in giro, con i numeri saliti oltre 20.000 e nessun reale sistema di ricollocamento. “Aggiungi 10 anni di austerity, debito e politiche neoliberali, con cui la Grecia viene venduta pezzo per pezzo, e il gioco è fatto…ma è sbagliato chiamarli fascisti”. Il ristorante tiene duro – con l’amministrazione locale che gli fa guerra con mille cavilli e normative e con le tasse – ma i dubbi sono tanti: “stiamo forse solo aiutando a far sembrare la situazione qui meno peggio? In ogni caso, conclude: “qui è come un barile senza fondo, tutto ciò ci metti dentro è perso.” Iniziamo a realizzare che siamo l’ennesimo gruppo-visita (ah, il nostro è un trip finanziato con fondi europei, of course) che passa di lì, ascolta, chiede e chissà che potere avrà di incidere.

Altro girò di caffè – bevono litri di “freddo espresso”– e siamo con Amelia Cooper, scienziata politica di Oxford che prima si occupava dei casi legali e ora si occupa di advocacy per il Legal Center Lesvos. Il centro è stato creato nel 2016 dopo l’accordo EU-Turchia, che – ribadisce Amelia – “oltre a dare 6 miliardi alla Turchia per tenersi le persone ha sancito il ruolo delle isole egee come centri di detenzione ed espulsione”. Tutto il racconto è molto tecnico ma Amelia ci tiene che ci ficchiamo bene una cosa in testa: “qui non si tratta di una questione greca, parliamo di una questione politica e finanziaria che riguarda un confine dell’Unione Europea, con la squadra della guardia costiera greca, Frontex e forze NATO che lavorano insieme, e con la sempre maggiore presenza dello European Asylum Support Office (EASO). Tutto ciò che succede qui, succede come spazio-EU”. Ok.

Con Amelia ci tuffiamo in una cronologia dei fatti e di come il nuovo governo – da Syriza a Néa Dimokratía (Nuova Democrazia) – abbia cambiato la procedura sull’asilo, l’impatto che ha avuto su chi è sull’isola e su chi prova ad arrivarci. È molto calma e sorride mentre ci spiega tutto a macchinetta.

Siamo a gennaio 2020 quando cambia la legislazione, per creare maggiore esternalizzazione, aumento delle funzioni “deterrenti”, attraverso un sistema punitivo e di deportazioni, maggiore criminalizzazione /ostacoli alle ONG, anche attraverso tasse, e di questo parlerò in seguito.

Febbraio invece è il mese degli attacchi e dei picchetti dei locali e dei gruppi fascisti, del fuggi fuggi generale di ONG, di Erdogan che minaccia di “aprire le gabbie”, della Grecia che minaccia di costruire un muro di gomma in mare, dell’Unione Europea che applaude e ringrazia Nuova Democrazia di difendere i confini, e poi inizia il COVID e “i richiedenti asilo sono una pedina negoziale preziosa per tutti”…

Marzo è il mese in cui le forze EU-Nato-Greche iniziano a respingere illegalmente chi prova, o riesce, ad arrivare a Lesbo dalla vicina costa turca. Chi è in mare viene respinto attraverso onde prodotte dalle navi della Guardia Costiera/Frontex/Nato, i gommini spinti con lunghi bastoni e pallottole di gomma nell’acqua.

Chi riesce ad arrivare non viene portato nel campo di Moria, per evitare che chieda asilo, ma tenuto in autobus per giorni o portato in centri non-ufficiali dove viene espropriato del cellulare e non ha accesso alla procedura legale dell’asilo. Dopodiché si viene rimessi sulle barchette (dingy) col motore mezzo avariato e le altre barche (Frontex, Greci, Nato) fanno un po’ di onde per spingerti verso la costa turca. In altri casi le persone vengono messe su dei gonfiabili e prove fotografiche raccolte da LCL mostrano che questi gonfiabili vengono prima svuotati dall’equipaggiamento di salvataggio, e mandati in mare alla deriva con l’obiettivo che raggiungano le acque turche.

L’ultimo incontro ufficiale della giornata – online – è con il giornalista rifugiato in Francia Mortaza Behmoudi che dialoga in particolare col nostro giornalista tedesco, Christian Jabos, e altri del Forum Eurorusso. Si sente poco, faccio fatica a immagazzinare altre informazioni e in generale mi sembra che ci sia del tiepido ottimismo sul ruolo della comunità internazionale che non riesco a conciliare con il mio stato d’animo.

Parliamo molto dell’ipocrisia della Germania che potrebbe ora accogliere molte persone e non lo fa, dei numeri che sono sempre piccolissimi se confrontati con il totale delle popolazioni (140.000 persone in Grecia), dell’enorme quantità di fondi EU per sostenere la gestione dell’asilo spesi male, degli interessi politici e vantaggi elettorali dietro al fatto che questa resti una ‘crisi’, della dimensione legale come unica speranza unita all’auto-organizzazione delle persone che si spostano come attori della lotta. Su questo fronte, durante la primavera 2020 ci sono state proteste auto-organizzate delle persone nel campo e due lettere di denuncia scritte nel campo, ad aprile e maggio, scritte da due gruppi interni al campo il Moria Awareness Team, ora Moria Corona Awareness Team, e Moria White Helmets.

“Finché non si parla delle politiche dei confini non si riuscirà mai a lavorare sul tema delle violazioni dei diritti umani, perché si dirà sempre che sono un effetto collaterale, perché la migrazione è stata così efficacemente demonizzata che quello che c’è dietro alle violazioni non viene mai discusso” – mi appunto questa frase del giornalista tedesco e la sottolineo.

A casa mi sdraio per terra per un’ora. Alla cena, in un ristorante di rifugiati siriani, in compagnia di Israel Binta, un ragazzo del Congo, sono un po’ più presente e ascolto un’altra storia di ‘fuoriuscita da Moria’, resa possibile dalla conoscenza delle lingue con cui alcune delle persone che arrivano riescono facilmente a diventare interpreti per le ONG. Il nostro interlocutore parla sei lingue, ha imparato il greco, da due anni suona la chitarra e ha formato un gruppo di musica e danza: RAD Music International. Dormiamo.

Il secondo e terzo giorno facciamo una sfilza di altri colloqui e incontri di cui racconto gli aspetti più rilevanti, ma intanto qui una rapida carrellata: un’infermiera inglese che ha lavorato e lavora a Moria con diverse ONG tra cui la tedesca MVI, un’avvocata greca che lavora per la ONG di ebrei newyorkesi HIAS, un ragazzo rifugiato siriano che si è fermato a vivere sull’isola, una studentessa spagnola che lavorava con una ONG che faceva avvistamenti in mare Lighthouse Relief, una volontaria statunitense che lava i vestiti per disinfettarli dalla scabbia con il Lava Project, come servizio per le altre ONG, un irlandese, uno spagnolo e una greca che lavorano per la ONG greca Better Days, che prende anche finanziamenti del Ministero degli Interni, persone di ogni nazionalità (tra cui una turca) volontarie della ONG-svizzera One happy family, il cui centro è stato incendiato qualche mese fa, un ragazzo afghano e una francese che gestiscono Wave of Hope, scuola nel campo creata da una persona rifugiata afghana e ora ONG registrata in Italia, un ragazzo afghano e una norvegese-curda che lavorano con la ONG locale Stand by me, che fa progetti di riciclaggio e di educazione…Parola chiave: ONG…

L’incontro con Charlotte – infermiera from UK – sempre davanti a un caffè, è molto gioioso – spengo pure le candeline di compleanno su un muffin – poi inizia la storia.

Ci sono alcune cliniche nel campo e poi c’è quella pubblica a Mitilene. Tra attacchi dei locali  e Covid c’è stato un fuggi fuggi delle ONG (alla ONG tedesca  MVI per cui lavorava hanno incendiato le macchine, ma sono rimasti) e quindi il personale medico è pochissimo. Lei è con 7 dottori e altre 2 infermiere e vedono circa 300 persone al giorno. Ogni giorno almeno una ventina di ragazzi arrivano accoltellati, la maggior parte si taglia. Non ci sono le attrezzature per operare. “Non possiamo fare TAC quindi è tipo medioevo.” Quando la cosa è troppo grave la gente viene mandata all’ospedale locale, che non è messo molto meglio. “Il razzismo lì è strutturale: la gente aspetta ore, alle donne che devono partorire viene fatto sistematicamente il cesareo, e non le ricoverano dopo: le rimandano indietro col bambino a dormire per terra nella tenda, che è pericolosissimo dopo che ti hanno aperto la pancia”.  Non avendo la struttura ospedaliera, praticamente per qualunque cosa devono dare chili di antibiotici. Questa cosa degli antibiotici è importante perché c’è tutta una storia sul fatto che i batteri stanno diventando resistenti e si producono e distribuiscono tonnellate di nuovi antibiotici.

Emerge l’intricato sistema burocratico delle ONG, il fatto che alcune grandi abbiano una serie di policies su quali pazienti vedono o non vedono. Scopro che MSF è stata accusata di razzismo istituzionale e white supremacy in una lettera firmata da oltre 1.000 tra impiegati ed ex impiegati, lettera arrivata dopo una dichiarazione di MSF Italy nel post George Floyd sul fatto che ‘all lives matter’. Te pareva…

Ci racconta anche lei la storia dello psichiatra spagnolo, che avrò modo di conoscere quando gli altri partono. “Io non riesco a parlare bene della dimensione della crisi politica – conclude – ma sicuramente dovrebbero mettere le persone nelle migliaia di edifici abbandonati che sono sull’isola, visto che a Moria per metà del tempo mancano acqua ed elettricità e la gente defeca intorno alle tende o in quello che io chiamo “il fiume di cacche””. Sul fiume di cacche e un rapido accenno alla storia comunista dell’isola ci salutiamo e con lei a avrò modo di rivedermi.

Il secondo incontro della giornata è importante, con l’avvocata greca Elli Kriona Saranti del centro legale  HIAS, che ci spiega di tutto e di più del sistema legale ma apre dicendo: “io non sono scioccata dalla situazione a Lesvos, a cui ora viene rivolta tanta attenzione. A Samos secondo me per certi versi è pure peggio, perché è uguale ma non hanno neanche lo spazio. E poi ho visto i campi rifugiati in Africa, e i soldi arrivano sempre dalla stessa pentola…”. Ricordarsi che il mondo è una merda ed è tutto lo stesso sistema risulta quasi rassicurante…

Con lei ripercorriamo la storia – anche sul fronte legale – di come l’isola è passata dal primo campo costruito nel 2009 (Pagani) ad oggi, che va un po’ così.

Sotto Il Regolamento di Dublino le persone che riuscivano a prendere la rotta balcanica dalla Grecia, e venivano poi fermate, dovevano tornare in Grecia come primo paese di arrivo. Nel 2011 viene vinta una causa contro Grecia e Belgio alla Corte Europea dei Diritti Umani, che attesta che non si può essere rimandati in Grecia perché la Grecia praticamente non ha un sistema che consenta la procedura d’asilo. Allora inizia un periodo in cui la UE monitora la Grecia per assicurarsi che metta in piedi questo sistema e la Grecia lo fa, anche benino, con fondi UE.

Viene creata la necessaria autorità indipendente, persone di UNHCR vengono coinvolte come consulenti.  Secondo Elli in quel momento, sotto Syriza, la Grecia agiva senza un’agenda anti-immigrazione. Questo sistema viene di fatto inaugurato con i primi flussi con numeri importanti, e tutto sommato tiene. I criteri sono molto chiari su chi può avere diritto all’asilo e chi no e le interviste si svolgono in relativamente poco tempo (4 ore).

Poi lo European Asylum Support Office, che in teoria doveva solo supportare lo sviluppo del sistema greco, inizia a entrare sempre di più in gioco fino a sostituirsi al servizio greco per l’asilo, e “questo è un problema perché hanno un’agenda politica”. La qualità delle procedure si abbassa, gli esiti delle lunghissime interviste vengono ricontrollati fino a tre volte, persone con poca esperienza diventano i supervisori e hanno l’ultima parola e possono bloccare tutto.

EASO come le altre agenzie europee, come Frontex, non deve rispondere a nessuno di quello che fa ed è difficilissimo denunciare il loro operato.

Poi arriva la nuova legislazione, con Nuova Democrazia, fatta apposta per essere punitiva e le procedure per la richiesta d’asilo diventano un campo minato: le interviste non possono essere spostate, se per qualche ragione una/uno non riesce ad andare si viene immediatamente respinti (anche se stavi partorendo), ogni minima cosa viene usata per dire che ti sei implicitamente ritirato dal processo, che non sei più interessato e la pratica viene chiusa. Quando arriva il diniego, per fare appello bisogna andare ad Atene, ma chi sta a Lesvos ha la “restrizione geografica” a non andarsene dall’isola, e deve quindi presentarsi alla polizia due giorni prima della data dell’appello per dire “ci sono e voglio ancora fare l’appello”. A Moria però per uscire dal campo danno pochissimi permessi e quindi non è detto che uno riesca ad averlo proprio per il giorno giusto. Dopo il diniego si doveva fare appello entro 5 giorni, ma la documentazione andava preparata ed essere consegnata solo tre giorni prima del processo. Ora invece va consegnata tutta entro 5 giorni ma non ci sono abbastanza avvocati per assistere chi deve prepararla.

Circa il 40% delle richieste viene rifiutata. Con i siriani, le donne sole, le persone che subiscono persecuzione per orientamento sessuale, la violenza settaria in Iraq (Shia/Sunni) di solito si riesce a far ottenere l’asilo. Per le persone Afghane è più complicato. A un certo punto Eritrei e Yemeniti venivano approvati d’ufficio senza interviste, e alcuni Palestinesi e Somali. In generale, c’è un grande pregiudizio sulle persone provenienti dall’Africa. “Ecco che entra il bugiardo… vedi scritto sulle facce dei funzionari di EASO. Era diverso quando c’era il Servizio Greco per l’Asilo, che approvava moltissime richieste soprattutto per dissidenti politici. Poi c’è chi porta storie di violenza feudale intra familiari – difficile. Per le persone torturate è complesso perché la Grecia non ha una procedura per stabilire chi ne sia stato vittima e quindi serve UNHCR anche se la legge dice che deve essere l’autorità pubblica nazionale. In generale con Syriza e prima dell’accordo EU-Turchia si poteva lavorare. Ora certamente con EASO di mezzo la situazione è brutta. EASO è presente anche nei campi in Grecia ma è qui la principale scommessa”. Approfondiamo il ruolo della Corte Europea dei Diritti Umani che dà più speranze perché non dipende dall’Unione Europea bensì dal Consiglio d’Europa, anche se comunque “sono molto più inclini ad accertare le violazioni ad esempio dei Paesi ex URSS che della Grecia o della Turchia”. Alla fine scopriamo che Elli è per metà russa e si mette a parlare con tutt perfettamente.

Mangiamo un sacco di fritti in un ristorante sul lungo mare, presentandoci per l’ennesima volta uno per uno ai nostri ospiti: Majid – siriano – che dalla Turchia ha provato ad attraversare il tratto di mare che porta a Lesbo 7 volte prima di spuntarla – e Ines spagnola avvistatrice di barche per la ong Lighthouse Relief.

Majid si è fatto pure 6 giorni nella prigione di Lesbo. Ora vive qui con madre e sorella e hanno lo status. Cerchiamo di fare le domande meno inutili possibile, mi perdo nei miei pensieri sui processi di razzializzazione delle persone turkmene. Ines ci spiega che prima facevano avvistamenti e poi hanno bloccato tutto e ora in mare ci vanno solo le barchette dei trafficanti e quelle di Frontex/Nato e della guardia costiera greca. Si può quasi parlare di disoccupazione dei cooperanti in questo clima continuamente mutevole. Le ong se ne vanno e loro ne cercano altre. Fanno i volontari per un po’ aspettando che qualcuno li paghi. Fanno colloqui di lavoro con le ONG. Conoscerò anche volontari maschi ma tantissime sono le donne e l’età media è bassissima, molte studentesse universitarie che fanno le loro tesi sul lavoro a Lesbo. Il pomeriggio è libero e lo passo a gironzolare con la fotografa russa-turkmena e a chiacchierare con un signore nativo dell’isola migrato a New York e che ora sta pensando di tornare qui. Della situazione a Moria sa poco se non che l’isola non è più la stessa, suo padre era comunista, per lui sono tutti uguali.

La cena è con una persona GIGANTE, in senso non letterale, Nawal Soufi, seguitela su Fb, e tre ragazzi del suo “team”. Nawal è conosciuta per il lavoro che ha fatto in Italia e su di lei/con lei sono usciti libri.  Riporto qui il testo del suo ultimo post che mi sembra il modo migliore di presentarla:

#DiarioDiUnaGuerra #Moriacamp

Quando ci sveglieremo dall’emergenza covid, niente sara’ come prima. Inizieremo a farci delle domande che non avranno piu’ senso. La repressione avra’ raggiunto livelli storici.

I libri di storia parleranno di generazioni occupate a delineare i canoni di bellezza di una modella, e distratti nel difendere l’ambiente, i diritti umani e la liberta’ d’espressione.

Noi non siamo popoli, siamo MOLTITUDINI. Quel che succede in un angolo di mondo, spezza l’equilibrio umano e quindi crea un danno altrove. Quel che tocca oggi ai migranti, tocchera’ domani agli stessi “Popoli” che vivono “sicuri” nelle proprie case.

Questa volta forse non verra’ chiamato Olocausto. Forse verra’ chiamato semplicemente “dimenticatoio”. Il risultato? Lo stesso!

Buongiorno… mondo dei popoli protetti dai confini nazionali impermeabili.

E ancora

Nel campo di #Moria c’è il primo caso ufficiale di coronavirus. Il governo greco, presumibilmente con fondi europei che potevano essere impiegati mesi fa a evacuare il centro, ha deciso di blindare l’hotspot. Circondato da cordoni di polizia e presto da filo spinato, diventerà una prigione in cui nessuno potrà entrare o uscire. Devo ricordare che qui sopravvivono 15mila persone, con servizi igienici insufficienti, senza sapone o disinfettanti, in un clima di violenza, insicurezza e abbandono?

Si poteva immaginare. Lo sapeva lei, signora Ursula Von Der Leyen, quando lodava la Grecia come scudo d’Europa? Era sei mesi fa, non può averlo scordato

#Lesbo, isola amata, #Europa

Nawal ha un appoggio in città ma spesso dorme a Moria, nelle tende, insieme alle persone che aiuta ad auto-organizzarsi. “Non sono una ong, non sono neanche un’attivista, questa è la mia vita, voglio essere libera di capire e denunciare e di camminare con le persone che si spostano nei Balcani e farmi sparare, se serve, ed essere qui e dormire per terra insieme alle persone imprigionate”. Il “modus operandi” di Nawal è sempre lo stesso. Lei arriva e si sparge la voce perché è molto conosciuta nel mondo arabofono come “Mama Nawal”. Incontra le persone, capisce quali sono le competenze e crea un gruppo whatsap che è una sorta di task force di auto organizzazione e mutualismo nel campo. Usa il suo profilo per denunciare. Indaga sulle dinamiche interne (da dove viene esattamente tutta la droga a disposizione nel campo?), sta qualche mese, e poi porta il suo corpo su un’altra frontiera. I ragazzi con lei parlano poco inglese e comunichiamo con Nawal come interprete dall’arabo. Si definiscono “team bapsi” che è il nome di un videogame a cui tutti erano dipendenti quando stavano i Turchia, ma ora dalle sale gioco di Mitilene si tengono lontani. Nawal ha poco tempo da perdere e molte cose da fare, “seguitemi sui social, stiamo in contatto”. Resiste a tutti coloro che le dicono di creare l’associazione Mama Nawal. Si mantiene anche come traduttrice e dopo la giornata di lavoro nel campo si mette a tradurre dal cellulare nella tenda.

La serata si conclude in riva al mare di fianco alla statua della libertà, grande luogo di aggregazione di molte persone bloccate sull’isola, insieme a Israel Binta e la sua chitarra. Cantiamo Bella Ciao, Bob Marley e I will survive, ci invita a una festa nel nuovo appartamento che è riuscito ad affittare a Mitilene, e in cui si festeggia anche il suo nuovo cagnolino adottato dal campo di Moria.

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Giovedì è il giorno del mal di testa acuto da ONG, e inizia con quelli che lavano le cose dalla scabbia – Lava Project – con lavatrici a tanti gradi portate da Atene e alcune in barca dall’Olanda.

La scabbia se non trattata è una brutta storia e a Moria è difficilissimo trattarla efficacemente. Le persone si grattano all’impazzata e si riempiono di cicatrici, diventa tipo ustione di terzo grado. Questi del Lava Project passano dieci ore al giorno a lavare vestiti che poi vengono ridati ai proprietari. Il punto del lavaggio è vicino al campo, la cittadina di Moria che è luogo da cui è partita la maggior parte degli attacchi e picchetti, e per arrivarci attraversiamo il campo in macchina. Con il giornalista-tedesco messicano parliamo degli accenni di molte persone alla logica concentrazionaria nazista e in generale a tutte le volte che abbiamo sentito l’associazione Moria-Aushwitz. I tedeschi di sinistra hanno imparato bene che ogni associazione di questo tipo banalizza la Shoah e può celare antisemitismo. Io da ebrea sono più flessibile e penso che il punto sia sempre cosa si fa di queste associazioni, per dire/fare cosa, anyway…

Altro giro altra ONG, la greca Better Days, di cui conosciamo la manager greca, un operatore irlandese e un comunicatore spagnolo. Ci parlano dei loro progetti educativi e poi discutiamo della competizione/collaborazione/potenziale di fare fronte comune delle ONG.

Al momento ci sono circa 70 ONG registrate sull’isola, di cui forse una trentina sono attive dalle informazioni della nostra tour manager e NGO worker. Questa è solo una parte delle molte che sono passate di qui. Da volontari indipendenti alle piccole associazioni alle grosse organizzazioni governative e non governative, ogni categoria del mondo ‘umanitario’ è visibile a Lesbo. Ogni ONG ha i suoi social con i quali mostra cosa fa. Chi denuncia di più, chi di meno, chi si promuove così chi cosà, tutti si reinventano continuamente nel clima mutevole di restrizioni burocratiche (certe ong sono registrate in Grecia e hanno più libero gioco, altre no), chi prende l’ISO, chi no. Da quando il governo greco ha aumentato le restrizioni le ong devono presentare i bilanci. Il futuro per tutte dipende dal covid, e se non possono più operare vengono meno anche i fondi e come si mantengono i costi fissi della struttura? In generale secondo loro c’è un buon livello di cooperazione tra ONG e coordinamento. Quando si è trattato di firmare lettere collettive lo si è fatto. Si cerca di non duplicare i progetti…Il mal di testa da ONG permane.

Proseguiamo col centro One happy family, che da quando Moria è in lockdown ha numeri bassissimi di persone (che devono camminare 45km da Moria per raggiungerlo). Vediamo le conseguenze del rogo appiccato da ignoti a marzo. Altre anime umanitarie sbucano dai diversi spazi del centro (chi insegna greco, chi pronto soccorso, poi c’è l’orto arido, la ceramica, e il laboratorio di recupero bici, bici abbandonate che arrivano dalla Germania su navi e che praticamente ci vuole giorni a riparare e non vengono molto usate perché moria è tutta colline.

Rimaniamo colpiti da una bici attaccata a una lavatrice che era pensata per sollevare le persone dalla fatica di lavare i panni a mano ma poi si è rivelata ancora più faticosa e non è mai stata usata, ci spiega un giovane meccanico francese.

Scopriamo che quando il centro era in pieno dei suoi servizi (1000 pasti al giorno), avevano organizzato una sorta di sistema interno di moneta per i vari servizi con moneta plastificata e che questi soldi erano dracma con dietro frasi gentili. Una ONG svizzera stampa moneta greca pre euro per creare una micro-economia nel centro rifugiati! “Cioè è come se…”, proviamo a pensarci ma non ne esce molto, comunque è tutto un po’ folle.

Poi la scuola del campo Wave of Hope (2.400 studenti con 28 docenti del campo) tutta gestista da rifugiati, così si presenta, e questa in generale è la carta vincente di tutte le ong. Comunque è davvero nata da rifugiati, ma a me ormai scoppia un po’ la testa.

Anche la ong successiva, Stand by me, si presenta alla grande. Greca, modello di co-dipendenza con le persone nel campo. Obiettivo migliore le cose e creare dialogo. Ci viene presentato un progetto articolatissimo per fare uscire dal campo le tonnellate di bottiglie d’acqua in plastica che vengono distribuite ogni giorno. A raccontare sono Abdul e Shirin, lui afghano e lei norvegese-curda. Avrò modo di rivedere Shirin e condividere tutte le mie domande sul ruolo delle ong.

Venerdì la visita è finita, le e i russi ripartono. A cena sono con Shirin e altri di Stand by me, parliamo apertamente di come le ONG siano parte del problema, analisi che aiuta ma è anche molto deprimente. “Le ong hanno iniziato ad affittare gli ettari della giungla dai locali” avallando il fatto che il campo si espandesse invece che mettere pressione perché la gente potesse andarsene”. Ci beviamo sopra e la serata termina al faro, nel mezzo della baia di Mitilene, a cui si accede da una passerella in mezzo al mare che fa un po’ road to heaven con un gruppone grande di ngo workers, volontari persone richiedenti asilo, e c’è un compleanno e si canta e si balla e ormai so tutto il repertorio musicale internazionale a memoria.

Un ragazzo del Congo si mette a fare una performance in cui imita le grida dei poliziotti quando li trovano fuori da Moria e gli intimano di tornare indietro con urla isteriche: “Go baaaaaack!” Recita se stesso che spiega che devono andare dall’avvocato o fare questo e quello e poi il poliziotto di nuovo isterico “go baaaaaaaaaaaaaaaaaaaack!” La performance continua e a ogni gooo baaack ridiamo più forte. Sono/siamo tutti giovani e giovanissimi e tra cuccioli di cane e ormoni love is in the air. Mi colpisce quanti tra ngo people e rifugiati usciti da moria adottano questi cuccioli del campo (ovviamente, mi viene fatto notare, solo i più piccoli e carini), e riversano su di loro litri di miele e coccole. “Questo cane è molto traumatizzato” mi spiegano, quindi bisogna avere molta cura. Mi sembra che ci sia una specie di generale pet therapy per dirla con categorie nuove, o forse è solo che i cani sono un po’ meglio degli esseri umani e con loro si può stare fuori dalla violenza che ci attraversa e agiamo e subiamo costantemente e molto di più in posto come Lesbo.

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Degli ultimi giorni sull’isola racconterò solo del nuovo incontro con l’infermiera Charlotte e soprattutto con i suoi coinquilini, due greci che studiano sull’isola e il famoso psichiatra spagnolo.

Vivono in tantissimi in case piccole gli ngo wokers e volontari e studenti universitari. L’isola ha una popolazione universitaria su carta molto grande di fatto piccola (circa 1500 students) perché in Grecia l’università è gratis e la gente si iscrive ma non c’è e ci sono storie di chi ci mette 18 anni a prendere la laurea.

Fumiamo sigarette – si fuma un casino in Grecia – nella piccola e incasinata cucina. Danai è mezza greca, un quarto inglese, un quarto italiana, è cresciuta su un’isola greca di poche anime e ora studia geografia alla Xenia’ University di Lesbo che ha un campus su una collina ed è in realtà un ex hotel. Iotam è cresciuto a Paros e ha i genitori ebrei che si sono conosciuti in Israele dopo diaspore dell’altro mondo (o di questo) e poi si sono trasferiti, a Paros appunto, aprendo una scuola di yoga. Parlano delle contraddizioni delle ONG definendo tutto come “a big NGO game”. Mi sembra di essere tornata all’università quando studiavo cooperazione nel modo più critico possibile, mi ricordo del perché non ho voluto lavorare per una ong (principalmente perché il livello delle contraddizioni mi manda in tilt e sarei più un peso che altro). Danai mi racconta che lei fa la volontaria con la rete anarchica NBK – No Border Kitchen – anarchici tedeschi – che consegnano pasti nella foresta alle persone rifugiate ma anche homeless e Rom e persone povere di Lesbo.

A quanto pare però anche NBK è soggetta alle questioni degli standard e burocrazie e quindi ora i pasti li prende da una ONG basca. Che fatica raga…

Lo psichiatra spagnolo è attivo nelle aree di movimento di Nadrid (“siamo Toni Negriani”), parla perfetto italiano dopo un Erasmus a Roma, ed era venuto sull’isola per fare una ricerca sull’impatto psicologico che l’esperienza di volontariato ha su persone che in qualche modo vengono a “cercare sé stesse”, e la differenza tra venire qui e andare per esempio a combattere coi kurdi.

Poi scoppia il COVID e gli attacchi dei locali, le ong evacuano, lui è anche dottore e visto che ne sono rimasti pochissimi gli chiedono di aiutare. Lavora come volontario per mesi. Scopre che per direttive (anche delle ong più grosse) gli psicofarmaci sono vietati. Persone che magari prendevano anti-psicotici da 10 anni in Afghanistan si vedono negate le cure e vanno fuori. Inizia a fare telefonate e in tre mesi sblocca la situazione, solo per i casi più severi. “Dare psicofarmaci se uno è depresso per me non è etico, perché sono tutti depressi. Darli a chi a una condizione molto severa è un obbligo. Inoltre con le perizie riesco a fare una differenza per l’ammissibilità di molti nella procedura d’asilo e in questo modo nonostante tutto mi sembra che il mio lavoro sia sensato, se no non rimarrei”. Proviamo a fare analisi della composizione generale della solidarietà tra ONG e persone più collegate a movimenti sociali. In generale è un gran casino perché si va dai mennoniti che pregano di notte a UNHCR – visti alcuni workers in spiaggia col tappetino tecnico della ong preso dal campo come nelle migliori delle tradizioni – a quelle più critiche locali, tutte pressate dalla burocrazia. Tutto ha senso, niente ha senso, si torna sempre a parlare del più ampio sistema di merda in cui viviamo.

A questo proposito apprezzo il testo di No Border Kitchen che si fa delle domande e dà delle risposte:

Su quest’isola, ci troviamo costantemente di fronte alla stessa domanda: cosa ha senso?

Nell’ultimo periodo di tempo abbiamo assistito a cambiamenti radicali nella migrazione, nella politica, nelle azioni sanzionate dal governo e nella società dell’isola. Ciò che ha senso dipende in parte dalla situazione attuale sull’isola. A volte, dipende dalle nostre convinzioni politiche. Può essere una domanda personale o collettiva. Ma la risposta non è mai fissa, tuttavia ci sono due possibili domande successive. Uno è inevitabile e legato a noi per le ragioni per cui svolgiamo il nostro lavoro e per la situazione di perenne miseria e oppressione a cui sono soggette anche le persone in movimento.

Perché non possiamo fare di più?

È una domanda valida, che va posta. Tuttavia, senza l’equilibrio della seconda domanda, si tratta di impotenza, disperazione e demotivazione. La seconda domanda è una che spesso dimentichiamo, perché sembra che non facciamo mai abbastanza. Anche se,

Cosa stiamo già facendo?

è una questione di riflessione altrettanto valida. NBK ha fornito cibo alle persone in movimento negli ultimi cinque anni ogni singolo giorno. Ogni singolo giorno, siamo riusciti a organizzare il cibo in modo organizzato collettivamente organizzato orizzontalmente. Oltre a ciò, forniamo scatole per alimenti da quasi altrettanto tempo. Nonostante la situazione in continua evoluzione, la repressione della polizia, le tragedie personali, gli incidenti violenti, siamo stati in grado di organizzare queste due attività senza sosta.

Siamo vincolati dalla solidarietà, la nostra e gli altri. È uno dei nostri principi più importanti che ci aiuta a unirci alle lotte e combattere contro un mondo in cui le persone al potere ei loro sostenitori stanno diventando più apertamente razziste e xenofobe con il passare del tempo. La solidarietà ci consente di essere ambiziosi e le nostre ambizioni sono elevate. Possiamo trarre profonde ispirazioni dal coraggio e dalla determinazione dei nostri compagni in tutto il mondo di fronte alla terribile oppressione. No Border Kitchen Levos si basa sul desiderio e l’ispirazione per un mondo migliore e i nostri risultati parlano da soli. Continueremo a combattere, lottare, fare amicizia, nemici, organizzare, analizzare, non amare la polizia, guidare, ridere, piangere e occasionalmente cucinare per costruire un mondo migliore. Siamo arrabbiati e siamo organizzati.

Amore e rabbia.

Seguite la pagina di No Border Kitchen, che documenta quello che succede e denuncia insieme a molti tra cui  Nawal Soufi, Legal Center Lesvos, Stand by me.

“È come un video-game, noi proviamo a passare e la polizia ci rimanda indietro. Ancora e ancora finché non ce la facciamo”, mi diceva Iman una sera tra una canzone iraniana e l’altra. “Io non vi chiedo di prendere i vostri aerei, ma almeno lasciatemi camminare, come possono fare i cani”.

Sono volata via, io e il mio privilegio europeo, che sta benone. Non so chi sia riuscito a leggere fin qui e se abbia avuto un senso questa lettura. Evito di trarre chissà quali conclusioni, spero che si sia capito chi sono i cattivi e che lo siamo un po’ tutti e cerchiamo di capire in che modo essere solidali e creare alleanze con chi è lì, e sta lottando e resistendo, e bruciando tende se può servire a cambiare qualcosa. Io credo di essere più pronta a sporcarmi le mani, ma questo si vedrà.

Il Razzismo è una brutta storia and it is here to stay. C’è un sacco da fare. Daje.

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09 settembre 2020